L’attesa era quella che durava dal 1979, per noi cresciuti nel mito di Jody Scheckter e dell’ultimo titolo mondiale ferrarista. Ventuno anni, cullati giro dopo giro lungo stagioni di vittorie percepite come possibili, o frustrazioni rosse che si materializzavano alle prime gare; le turbine cambiate ad Alboreto e gli sgambetti ai danni di Prost; le vittorie degli altri e le speranze sempre rinviate. Qualcuno conservava ancora il poster del riccioluto sudafricano che sulla tuta bianca e sul casco aveva le gomme da masticare più famose del mondo, ma il suo fantasma andava esorcizzato.
Nel frattempo era arrivato Michael Schumacher, l’ex avversario in nome del quale valse la pena attendere ancora qualche anno. Nel dare tempo a lui, approdato a Maranello nel 1996, la Ferrari ne concedeva ancora a se stessa.
Otto ottobre 2000 e otto i punti di un vantaggio assottigliatosi nelle gare della seconda parte di campionato. Suzuka, e centinaia di sveglie puntate poco prima dell’alba, in Italia.
Pole ottenuta al sabato e partenza in diagonale per chiudere la porta ad Hakkinen, che però resiste e riesce a scappare.
Da quel momento in poi si capisce che fare il massimo in pista potrebbe non bastare. È a quel punto che Ross Brawn al muretto diventa quello che Angelo Dundee era per Muhammad Ali all’angolo: lo stratega che traccia il sentiero del campione. Una prima sosta per saziare del tutto la fame del serbatoio; una seconda che arriva tre giri dopo quella di Hakkinen: diventato primo dopo il rientro di Mika, Schumi compie il miracolo con l’aiuto dei meccanici: sei secondi per poi decollare di nuovo dal rettilineo dei box verso la pista?
Cosa c’è nel retrovisore? Chiazza argentea ma distante, la McLaren del Campione in carica ha la lucentezza di uno scettro quando passa di mano.
Schumi è davanti, i giri adesso sembrano non passare mai. Ma sono passati persino quei ventun’anni, adesso sì. Il casco bianco di Jody non è più un incantesimo nei poster.
Cavallino nero su fondo giallo, rintocchi di campana a Maranello, lacrime da indovinare sotto una visiera.
La bandiera a scacchi sembra una carezza sul viso dei bambini che eravamo. Che siamo tornati a essere, dopo quei giri.
Paolo Marcacci