In questi giorni si torna a discutere del tema sempreverde del femminicidio, in seguito al terribile assassinio di Ilaria Sula. Un omicidio orrendo, che non può non suscitare orrore e unanime condanna. Su questo punto, nulla quaestio, come si suol dire. Discutibile è invece, come al solito, la narrazione che è stata costruita a partire da questo esecrabile episodio di cronaca.
È infatti prontamente ripartito il solito racconto a reti unificate del maschio sempre e comunque omicida in pectore, con una strategia narrativa che non fa altro che riproporre il vecchio e vituperato razzismo, riformulato però in chiave di razzismo di genere. Affermare infatti che ogni maschio è potenzialmente omicida non è affatto diverso dal dire – come si è fatto orribilmente per lungo tempo – che chiunque abbia la pelle di un certo colore è in qualche modo pericoloso.
Perché questa narrazione sul femminicidio non aiuta nessuno
Come sempre, però, la narrazione dominante avviene a reti unificate e viene imposta ipnoticamente alle masse tecnonarcotizzate e teledipendenti. A questo proposito, non devono passare inosservate le parole recentemente pronunciate dal musicista Ermal Meta: «In quanto uomo, sono spaventato dal mostro che dorme dentro di me, perché io so che c’è, così come lo sente dentro di sé ogni uomo».
Sono, con tutta evidenza, parole allucinanti, prive di ogni logica e totalmente piegate alla narrazione mainstream sopra menzionata. Può darsi che dentro il musicista in questione dorma effettivamente un mostro, come egli stesso ha dichiarato; e se Ermal Meta ha un mostro dentro di sé, gli consigliamo lealmente di farsi vedere e provare a risolvere il problema. Ma con quale diritto egli può estendere questa sua personale percezione all’intero genere maschile? Perché mai dentro ogni uomo dovrebbe dormire un mostro, come afferma il musicista?
Ferma restando la piena condanna di ogni forma di violenza – sia quella dell’uomo sulla donna, sia quella della donna sull’uomo – il ritornello dell’uomo necessariamente violento e potenzialmente femminicida fa acqua da tutte le parti.
Anzi, risulta perfettamente funzionale al discorso neoliberale, che aspira in ogni modo a distogliere lo sguardo dalla lotta di classe tra alto e basso, per dirottarlo su lotte immaginarie, come quella tra maschi e femmine. La lotta di classe viene così resa invisibile, mentre l’attenzione viene spostata sull’inesistente lotta di genere, cara all’ordine neoliberale proprio perché non sfiora neppure lontanamente la contraddizione economica del classismo capitalistico. Anche l’ovvio merita di essere detto.
In ogni società, dall’antichità a oggi, le donne appartenenti ai ceti dominanti hanno avuto più potere degli uomini dei ceti subordinati. Oppure pensate che gli schiavi che trascinavano i blocchi delle piramidi avessero più potere di Cleopatra? O che oggi Ursula von der Leyen abbia meno potere degli operai della Fimer di Figline Valdarno? Questa forma mentis, come ricordavo, riproduce in un altro contesto il vecchio razzismo, applicandolo al genere.
Senza contare, infine, che la responsabilità è per definizione individuale. Ciascuno risponde delle proprie azioni, non certo di quelle di un’intera categoria: altrimenti si cadrebbe in un cattivo universalismo, quale è appunto quello del razzismo, che pretende di individuare una categoria cui affibbiare tutta una serie di prerogative negative.
In sintesi, la narrazione dominante sul femminicidio risulta pienamente organica al discorso neoliberale e, anche per questo, merita di essere decostruita criticamente, come abbiamo cercato di fare.
Radioattività – Lampi del pensiero quotidiano con Diego Fusaro