Ormai da qualche settimana è prassi consolidata leggere articoli su diverse testate che celebrano giovani di tutta Italia perché si sono laureati bruciando i tempi. Che siano solo 22 o 23 anni, poco cambia: i giornali fanno a gara a osannare, tra i giovani, quelli che per primi arrivano al traguardo della laurea, veicolando il pericoloso messaggio secondo cui il tempo è denaro e occorre velocizzare il più possibile il raggiungimento di qualsivoglia scopo.
Il messaggio che passa, e che viene promosso senza perifrasi, è il seguente: apprezzate le qualità del ragazzo o della ragazza in questione, la sua capacità di mettere a frutto il tempo e di ottenere il massimo risultato nel minor tempo possibile. Conseguendo tale risultato, il giovane in questione si rivela un “vincente”, uno che ce l’ha fatta, o, se preferite, un capitalista in potenza che già ha capito come funziona il mondo.
Ora, mi permetto di dissociarmi pienamente da questa logica imperversante e di offrire una diversa prospettiva. Lo faccio non certo perché io desideri fare l’elogio del “fuori corso”, vale a dire dello studente che si prende troppo tempo per portare a compimento il proprio percorso formativo. Al contrario, ritengo criticabile il contegno di chi raddoppia o talvolta anche triplica i tempi richiesti per giungere alla fine della propria carriera di studente universitario.
Il punto sta però altrove. Nella malsana idea della “gara” a chi si laurea prima vedo operativo, in forma non obliqua, il principio di prestazione proprio della civiltà neoliberale. In grazia di tale principio, ciascuno è ridefinito in termini di soggettività imprenditoriale, chiamata a mettere a frutto la propria impresa, cioè anzitutto se stesso. Il sapere stesso decade, diviene finalizzato a produrre l’utile e a generare il business presso i circuiti della civiltà della tecnica e dei mercati.
È questa, come sappiamo, l’essenza di un mondo in cui conta solo ciò che può essere contato e in cui vale solo ciò che può valere economicamente.
Ma può davvero dirsi cultura quella che si spaccia oggi per tale e che, più propriamente, dovrebbe essere classificata come semplice sapere tecnico volto all’utile? Occorre risvegliare il prima possibile le nuove generazioni dall’incubo in cui sono sospese e che esse seguitano a scambiare per un sogno: occorre tornare a far sì che si accenda nei giovani il desiderio di sapere, la passione per la cultura. E perché tale fiamma si accenda nel giovane discente, vi è bisogno di veri maestri. Il vero maestro non è quello che trasferisce nella testa del discente contenuti già pronti, quasi si trattasse di un travaso botanico. Al contrario, il vero maestro è quello che indica la via, quello che fa nascere insopprimibile nel discente il desiderio di uscire dalla caverna a riveder le stelle della cultura e del sapere.
RadioAttività, lampi del pensiero con Diego Fusaro