“Il pugno alzato di Smith e Carlos, il guanto nero, l’emulazione da parte del terzo del podio. Anche quello era solo un gesto, ma già all’epoca, con un potenziale di diffusione imparagonabile a quello odierno”.
Cominciamo da una premessa: questo articolo viene scritto prima della conferenza stampa di Leonardo Bonucci; con tutto il rispetto per le ragioni che il capitano della Nazionale avrà nel frattempo esposto nella conferenza stessa.
Viene scritto prima perché i concetti di fondo non possono mutare in base all’esposizione di una serie di ragioni di “opportunità”, con le virgolette che occorrono a sottolineare quanto, paradossalmente, sia poco opportuno addurre motivazioni pseudo diplomatiche di fronte a una questione di principio.
È chiaro, per prevenire le osservazioni più ovvie, ipocrite e furbastre, che il razzismo non si combatte soltanto esibendo un gesto; è però altrettanto evidente che la portata simbolica di quel gesto, visti nella fattispecie i protagonisti che lo compiono (o che scelgono di non compierlo) e la cassa di risonanza che ne diffonde e amplifica ogni atto, ha un impatto evidente sull’opinione pubblica, per le riflessioni che ne scaturiscono e per la mole dei dibattiti che ingenera, sia quelli utili che quelli inutili.
Giovano, ora, un paio di pillole di memoria storica: contrariamente a quanto molti stanno affermando nelle ultime ore, il gesto non nasce con le proteste dello scorso maggio, quando ha però iniziato a diffondersi in maniera massiccia tra gli sportivi di tutto il mondo. Il primo a compierlo fu la star del football americano Colin Kaepernick che nella stagione 2015-16 del campionato della National football league iniziò a mettersi in ginocchio durante l’esecuzione dell’inno americano. Interpellato dalla stampa, in merito, Kaepernick affermò di non aver intenzione di onorare un paese in cui la minoranza afroamericana continuava ad essere oppressa e vessata. Un dato di fatto, quest’ultimo. Nel resto del mondo, in particolare di quello occidentale, il gesto ha conosciuto ampia diffusione dopo la brutale uccisione di George Floyd, che generò un clamore mondiale perché – punto nodale, questo – a differenza di molti altri episodi di identico tenore, fu ripresa integralmente dagli schermi di diversi telefoni cellulari, con un rimbalzare d’immagini che finì per accendere l’indignazione di molti, incluso chi, fino ad allora, non si era mai mostrato troppo sensibile a questioni del genere.
Dicevamo, circa la portata simbolica e il rapporto con la cassa di risonanza?
Seconda pillola di memoria storica, più indietro nel tempo e agli albori della civiltà globalizzata: il celeberrimo podio olimpico di Messico ‘68, il pugno alzato di Tommie Smith e John Carlos, il guanto nero, l’emulazione da parte del terzo del podio, l’australiano bianco Peter Norman. Anche quello era solo un gesto, ma già all’epoca, con un potenziale di diffusione imparagonabile a quello odierno, la sua portata fu talmente detonante da far finire quell’immagine sui libri di storia; da causare la revoca delle medaglie e l’ostracismo verso due atleti neri che avevano appena coperto di gloria la nazione. Se non vi basta, andatevi a leggere la storia di Norman, il bianco del podio, e di ciò che passò in Australia.
Poi, se volete, continuate a pensare che “è solo un gesto”, ma non sperate di minimizzare la questione, né il significato che c’è nel compierlo. O, inevitabilmente, nel non compierlo.
Paolo Marcacci