La regola numero uno dello sport è questa: gareggi per vincere, ma in modo lecito, senza fare violenza agli altri, fisica e verbale. Sembra normale e scontato, ma non è così. Prendiamo spunto dal recente caso Cristiano. Il portoghese si è fatto male con la sua Nazionale. Subito i tifosi della Juve hanno manifestato sui social tristezza e dubbi. Siamo nella norma. Avrebbero fatto altrettanto i napoletani per Milik, i laziali per Immobile, i milanisti per Piatek e così via.
Ha sorpreso (insomma…) negativamente la reazione dei tifosi avversari della Juve. A Cristiano hanno augurato di tutto. Intendiamoci: non si sta difendendo Cristiano o la Juve, ma lo sport, il decalogo etico che dovrebbe sempre accompagnarlo. Il dibattito sui perché di tale cecità morale è aperto da sempre. Inutile tornare sull’argomento. C’è da chiedersi piuttosto che cosa si possa o debba fare. Combattere l’ignoranza, certo. Ma se gli italiani sono così la colpa non è certo del calcio. Che può però, rinnegando il proprio passato, liberarsi intanto dei teppisti, via via diventati i padroni dello stadio.
Le società potrebbero, d’accordo con le emittenti, portare i loro più amati rappresentanti davanti a un microfono per spiegare i veri valori di questa che resta, nonostante tutto, un’attività ludica. Potrebbero, i club, smetterla di usare il veleno e far credere chissà che al primo errore arbitrale. I più deboli dei tifosi si fanno coinvolgere e travolgere, sino a considerare gli altri non più avversari, ma nemici dei quali augurarsi la morte. In tribuna e sui social, diventati lo specchio della nostra società.
Roberto Renga