Siamo bravi a grattare, dopo aver toccato il fondo. Perché la prima persona plurale? Perché dissociarsi vale fino a un certo punto; anche se ci sentiamo a distanze siderali da certe aberrazioni e da un determinato modo di rapportarsi a un avversario. Perché se questo è l’ambiente che frequentiamo, del quale parliamo, scriviamo e dibattiamo, noi a certe cose, per quanti vomitevoli, non siamo del tutto estranei; se non altro per il fatto che ci tocca parlarne. Come per i cori sul Vesuvio e il colera; su Vincenzo Paparelli, sulle vittime dell’Heysel o su ogni altro simbolo che nemmeno la più fiera rivalità dovrebbe consentire di sfiorare. Così come quando in cori e striscioni Nicolò Zaniolo viene preso di mira ed etichettato come zoppo, o quando viene tirata in ballo sua madre. Sempre più come aprire uno scrigno con il piede di porco.
Stavolta si è arrivati oltre l’oltre, se ci è concessa l’iperbole. Non oltre la soglia della decenza, da un bel po’ oltrepassata; ma oltre la soglia dello schifo, anche se il termine potrà sembrarvi un po’ forte. Usare come pretesto un bambino che ancora non è venuto alla luce e che già deve portarsi appresso gli oneri della cronaca che indirettamente lo riguarda, non è questione di volgarità, di mancanza di rispetto o addirittura di odio: è questione di aver smarrito la soglia; del fatto che ormai è davvero tutto precipitato allo stesso infimo livello. Che certi “meme”, come si chiamano oggi, riguardanti la storia tra Zaccagni e la Nasti e di riflesso Zaniolo, possano inviarseli in chat anche i ragazzini delle medie, come se si trattasse degli sfottò per un autogol, un rigore sbagliato o una sconfitta inaspettata, ci rende tutti vittime e carnefici al tempo stesso, spesso inconsapevoli nell’uno e nell’altro caso.
E su questo non possiamo chiamare in ballo la Roma, la Lazio, le provocazioni di segno opposto dopo una coppa europea vinta: un pretesto vale l’altro e, nella fattispecie, la degenerazione durante un festeggiamento o la più volgare delle risposte possibili da parte di una giovane donna che si sente presa di mira sono solamente sfumature, per quanti avvilenti. L’aspetto davvero terrificante è che certe cose, pur provocandoci imbarazzo, non ci meravigliano. Non più. Proprio per questo ne scriviamo: per evitare a noi stessi di arrivare a non farci nemmeno più caso; di ridurci alla stregua di quelli che ormai, qualsiasi cosa accada, commentano con un – Ormai è bòno tutto -, come diciamo a Roma. E non può essere, invece. Non deve. Evitandoci di scendere quest’ultimo gradino, forse un giorno i nostri figli potranno iniziare a risalire. Noi siamo fuori tempo massimo, ma lo dobbiamo a loro, perlomeno.
PAOLO MARCACCI