I nostri libri di storia, semplicemente, non ne facevano menzione: noi liceali degli anni Ottanta, così come quelli degli anni Novanta, non sentivano mai menzionare, da nessuno e in nessun contesto, nemmeno dagli storici nei programmi di divulgazione culturale, la tragedia di una parte d’Italia. La persecuzione, la violenza assoluta priva di ogni barlume d’umanità, la discriminazione politica che si faceva etnica, o viceversa se preferite, la persecuzione di migliaia di italiani espropriati del loro suolo, della loro identità. Giustiziati con modalità atroce, “degna” di rivaleggiare con le atrocità che venivano compiute quotidianamente nei lager nazisti. Una modalità favorita dalle caratteristiche geologiche del suolo carsico, nel nord est d’Italia, dove era possibile sparare in testa a un padre di famiglia affinché precipitasse nel vuoto di quelle profonde cavità tirandosi appresso tutti i suoi famigliari. Vivi. Lasciati in vita perché si moltiplicassero le sofferenze dopo la caduta rovinosa; perché fosse più lenta e sofferta l’agonia.
Il problema, fondamentalmente, è che la storia la scrivono sempre i vincitori, nel bene e nel male e i libri di storia dei decenni successivi al 1945 non potevano permettersi di raccontare che i delitti compiuti dai partigiani jugoslavi del Maresciallo Tito erano equiparabili, non per numero ma per modalità, ai misfatti delle SS.
La lezione che dobbiamo continuare a trarre, ancora non del tutto metabolizzata, è sempre la stessa: finché continueremo a dare un colore politico alle vittime e ai carnefici, non avremo mai un libro di storia degno di questo nome.
Paolo Marcacci
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