Un’Inter tignosa pur nel disordine mentale che la accompagna e alla quale scotta il pallone tra i piedi, all’inizio; una Juventus che sembra voler giocare al gatto col topo, in attesa dell’inserimento giusto del Rabiot o del Locatelli di turno, oppure della percussione sempre tecnicamente deliziosa di Di Maria.
Col passare dei minuti, invece, i nerazzurri appaiono sempre più intenzionati a ragionare da squadra e a intasare il più possibile gli spazi per i quali transitano le linee di passaggio juventine.
Si prosegue in un crescendo di sportellate e scambi di “carezze” in punta di tacchetti, non sarebbe Juventus – Inter, in caso contrario. La Juventus la vorrebbe far sua e l’occasione sembra vicina più di una volta, ma il presidio territoriale bianconero è accompagnato dalla percezione che l’Inter meriti l’equilibrio, non solo del risultato, visto che Barella e compagni a tratti hanno avuto in mano il timone della partita.
Quando Cuadrado si materializza, solitario come un chiosco di granite a gennaio, sul lato destro dell’area, ancora prima del fremito di rete ci raggiunge una duplice sensazione: la persistenza con cui la Juventus stringe alla gola la fase finale delle partite è ormai un marchio di fabbrica della ricostruzione motivazionale operata da Allegri; l’essere riuscita a giocare da squadra non è bastato a un’Inter che anche quando cerca di aiutarsi non riceve l’aiuto di nessun dio.
Ma gli ultimi istanti sorprendono per primi gli interisti, poi noi con le nostre affrettate deduzioni. Un dischetto di rabbia rimette tutto in asse verso un ritorno che da caldo diverrà incandescente.
Paolo Marcacci