Giovedì 6 aprile: oggi è il Carbonara Day, il giorno della carbonara.
Ora, al di là delle abitudini alimentari, delle tradizioni alimentari, quello che vi voglio dire è che il Carbonara Day arriva proprio nel momento in cui stanno facendo di tutto per rovinare la festa dell’agroalimentare italiano, del cibo italiano, del patrimonio agroalimentare italiano, cioè una delle cose per cui siamo assolutamente ricercati nel mondo.
Siamo benvoluti, stimati, amati. Mangiare italiano vuol dire mangiare bene.
Mangiare bene vuol dire non soltanto sapersi nutrire, ma significa anche entrare dentro un sogno, quello appunto dell’italianità.
Ecco perché c’è questa fame di made in Italy.
Eppure, come vi dicevo, è in corso il tentativo di rovinare anche questa eccellenza italiana.
E lo fanno anche certi pensatori di casa nostra. Ora leggevo che qualcuno l’altro giorno è andato in televisione a dire male del cibo italiano, dicendo che “noi non possiamo definire cibo italiano ciò che è stato inventato da altre parti“, anche la carbonara.
Ecco, anche sulla carbonara si è aperto il dibattito, perché la carbonara è fatta da serie di ingredienti, e questi erano già utilizzati, per esempio in America. Ma il problema non è mettere insieme dei degli ingredienti: cucinare italiano vuol dire dare identità, dare passione, sapere raccontare un qualcosa. Ecco perché la carbonara è italiana.
Chi se ne frega se qualcuno forse sarà riuscito, in qualche epoca remota, a mettere insieme certi ingredienti.
No: il problema vero è che noi sappiamo raccontare, sappiamo vivere quel piatto, gli sappiamo dare quasi un sogno, una dimensione letteraria. E allora “Fake in Italy”, scriveva l’altro giorno La Stampa, il quotidiano della famiglia Agnelli-Elkann, riprendendo Alberto Grandi, docente di Storia dell’alimentazione, che contestualmente smonta i miti culinari del Bel Paese.
E quindi scoppia il caso, giustamente, perché è andato a rompere le scatole all’agroalimentare italiano direttamente sul Financial Times. Quindi io mi domando: perché tutto questo sta accadendo mentre dall’Europa fanno di tutto per promuovere la farina di insetti?
E perché a casa nostra giornalisti come Corrado Formigli ovviamente si mettono alla prova della della farina del sandwich fatto con la farina di insetti o cose simili.
Fate ridere: ve lo posso dire, è veramente un un giornalismo di misera provocazione.
Un giornalismo che non serve a nulla. Cosa volete dimostrare?
Ma mangiate e non rompete le scatole. Vi volete mangiare la farina di semi? Fatelo, ma non andate a rompere le scatole a chi non lo fa. Perché continuiamo sempre a fare come i “Tafazzi” che si martellano sugli zebedei per farsi male, cioè per rovinare quella che è un’eccellenza? Quello che è un patrimonio noi lo dobbiamo preservare, noi lo dobbiamo conservare perché ci dà anche ricchezza, perché vuol dire sostenere la filiera agroalimentare.
Cosa vuol dire il mettersi lì a inneggiare alla carne sintetica?
E allora facciamo così: facciamo che ormai il cibo diventa tutto qualunque cosa purché sia assimilabile, purché tu butti giù qualcosa.
Avevano già cominciato con il delivery e si finisce appunto con la carne sintetica, roba del genere.
Anche il delivery è la stessa cosa.
Il delivery appartiene alla stessa catena di montaggio.
Ma l’agroalimentare italiano non è catena di montaggio: c’è la passione.
Chi di noi non si ricorda il pranzo della domenica, quando lo si faceva coi genitori, quando lo si faceva dai nonni?
E le nonne passavano il giorno, la mattina magari a fare i manicaretti, a fare la pasta, a cucinare per noi.
Questo vuol dire difendere l’agroalimentare italiano, vuol dire difendere l’identità, che è la parola che tanto inquieta i giornalisti comunisti italiani di sinistra, questi riformisti.
Ecco, voi avete paura della parola “identità”, come ieri avevate paura della parola “patria”.
E allora tenetevi i vostri grilli, mangiatevi quello che volete, ma giù le mani dal cibo italiano.