Lo scorcio iniziale della gara di andata era stato più il buio che aveva scolorito la soglia d’attenzione rossonera o il bagliore intenso dei lampi di Dzeko e Mkhitaryan, ai quali aveva fatto seguito il tuono della parte nerazzurra di San Siro? Questione di punti di vista, ovviamente, anche se propenseremmo più per la prima versione.
Fatto sta che quell’inizio, diversamente scioccante a seconda del punto di vista, al termine dei 180’ diventa contabilità definitiva nell’almanacco e prenota per l’Inter il primo volo utile verso Istanbul, nell’attesa che domani Pep o Carletto riempiano la casella dell’altra finalista.
È qualcosa di più di un traguardo intermedio quello tagliato da Inzaghi e dai suoi: è un cammino che ha dell’impensabile, se rapportato al vacillamento, sussultorio e ondulatorio, della panchina nerazzurra fino a qualche settimana fa. Nel frattempo sono arrivate due finali e il recupero fino alla (momentanea) terza piazza in campionato, con vista sulle questioni juventine in divenire.
Stasera era cominciata con un Milan votato a perseguire l’intensità, sin dai primi minuti, ma con una soglia di pericolosità rosa pallido, un po’ come l’ennesima tinta di Theo Hernandez.
Poi al giro di boa del minuto 73 Maignan, che non è più di primo pelo, si ritrova lo svantaggio sul primo palo, un po’ sorpreso e un po’ colpevole, sostanzialmente battuto come chi vede il proprio sogno andarsene lontano, come il palloncino del quale un bambino milanista non tiene più il filo.
In un finale di falli di frustrazione più o meno pericolosi e battibecchi che hanno la sola utilità di aumentare il godimento interista, le spietate inquadrature vivisezionano lo stato d’animo di Pioli, che sembra guardare al terreno di gioco ma in realtà fissa il punto imprecisato dove si annidano tutti i particolari che gli sono sfuggiti di mano in una spietata settimana.