E’ il 19 gennaio 1988. Un giorno troppo brutto per essere ricordato dalla Storia.
Al Palazzo dei Marescialli di Roma si tiene un evento che avrebbe cambiato le sorti della Nazione.
Il Consiglio superiore della Magistratura sta per eleggere Giovanni Falcone a capo dell’ufficio istruzione del Tribunale di Palermo.
Una posizione precedentemente occupata dal giudice Caponnetto adesso deve essere assegnata a qualcuno di non poco conto, soprattutto se in ballo c’è l’infinita battaglia contro la mafia. Battaglia che però è stata già condotta negli anni passati: la mafia non è poi così più urgente, secondo i più, nonostante i continui richiami di Falcone su Cosa Nostra.
E’ però lui il favorito: le sue grandi capacità, la sua dedizione, il suo impegno sono sempre state sotto gli occhi di tutti.
Cesare Mirabelli è il Presidente della seduta. La sala è gremita.
I ricordi del maxi processo di due anni prima sono ancora lì, ma ora Palermo ha bisogno di stabilizzarsi.
In realtà, la Sicilia ha ancora bisogno – eccome – di qualcuno che sappia tener testa alla criminalità. Eppure il Consiglio mette in primo piano un altro candidato di fianco a Falcone: Antonino Meli è un anziano giudice sulla via della pensione.
Ha 17 anni di magistratura in più rispetto all’altro candidato, ma non si può dire lo stesso se si parla di conoscenze sulla mafia.
A Falcone è stato promesso l’appoggio. Gli è stato promesso che avrebbe vinto lui.
Poi nel volto una lacrima. Passa Meli con 14 voti, per motivi di anzianità. “Tutte le positive notazioni a favore – di Falcone, ndr – non possono essere invocate per determinare uno scavalco di sedici anni“, si legge nel verbale.
“Falcone va preferito“, precisa il dottor Abate. “Preferire Falcone significa contravvenire alla legge – ribatte il dottor Letizia – in Italia non c’è solo lui a combattere la mafia. Il miglior segnale del Csm è quello di non scegliere Falcone“.
Scegliere Giovanni Falcone vuol dire gettare nell’allarme la Sicilia, secondo la maggioranza e secondo le parole del dottor Tatozzi.
Ma è proprio quell’allarme che non è da sottovalutare, né nascondere. E uno dei primi a prendere le parti di Falcone è il suo storico collega Paolo Borsellino che nel luglio dello stesso anno richiama alla prudenza.
“Sono preoccupato perché percepisco stanchezza generale ad occuparci di questi fenomeni” – dice ai suoi colleghi.
“E in Sicilia in particolare la stanchezza fa risorgere un’antica piaga: quella della voglia di convivenza con la mafia, nel senso di ritenere che si tratti di qualcosa che non potrà mai essere debellato e quindi ‘teniamocela’“.
Falcone non può essere eletto perché “non giova all’unità dell’ufficio“. Non può essere eletto perché “ha già fatto troppi sacrifici“.
Passa Meli, e il viso di Giovanni Falcone trasuda delusione: era stato tradito dai suoi colleghi, dai suoi amici. Lacrime pesantissime che qualche tempo più tardi gli faranno dire “Sono un uomo morto“. E’ tutt’altro che pessimismo: la mafia è vigile e attenta a segnali del genere.
Il pool antimafia viene a poco a poco smantellato. Palermo ritorna nella “normalità” pagata a caro prezzo. Un destino “profetizzato” qualche anno prima da Dalla Chiesa.
Il generale rilasciava infatti un’intervista: “Credo di aver capito la nuova regola del gioco.
Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso, ma si può uccidere perché isolato“.
Quattro anni dopo quella votazione, il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone muore nella strage di Capaci.
(In foto la motivazione di uno dei voti favorevoli a Meli: il voto del dottor Cariti).