Anche il recente premio Nobel Parisi interviene ora sulla vexata quaestio del patriarcato.
E lo fa peraltro nel peggiore dei modi, con un paragone storico del tutto decontestualizzato e palesemente fuori luogo.
Ma prima di addivenire al giudizio di Parisi sulla vicenda del patriarcato, lasciate che rievochi pur brevemente i termini della questione.
La vicenda orrenda dell’omicidio di Giulia Cecchettin ha vivacizzato il dibattito a senso unico sul patriarcato.
La lotta contro il patriarcato consiste in realtà nell’ordine del global capitalismo in una più precisa lotta contro la famiglia, dacché il capitalismo globale aspira a liquidare la famiglia in nome della individualizzazione concorrenziale e consumistica di massa, essendo la famiglia un fortilizio di comunità e di resistenza alla mercificazione degli spazi del mondo della vita. E chiama “lotta al patriarcato” appunto quella che andrebbe meglio identificata come “lotta alla famiglia”.
L’ho detto e lo ridico, il patriarcato per fortuna non esiste più in Occidente da almeno 50 anni, essendo il patriarcato la figura del padre padrone, del dominio iperbolico del padre, quale si manifestò anche nelle forme funeste dei dittatori come figure iperboliche del padre appunto. Il capitalismo di libero consumo si basa anzi sulla morte del padre o, direbbe Lacan, sulla sua evaporazione.
E veniamo ora al giudizio di Parisi, il quale dice apertamente che Giulia Cecchettin e Ipazia sono vittime del patriarcato.
Si tratta con tutta evidenza di un’affermazione fuori luogo e mi permetterei anche di dire ridicola per più ragioni.
In primo luogo per l’accostamento storico.
Non me ne vorrete se dico che la povera Giulia Cecchettin, con tutto il rispetto del caso, non può certo essere accostata così disinvoltamente ai Ipazia, una delle più brillanti menti del canone filosofico occidentale. In secondo luogo il giudizio di Parisi appare fuorviante e anzi un po’ goffo, poiché né Ipazia né Giulia Cecchettin sono state vittime del patriarcato. Non lo è stata Giulia, dacché, come più volte abbiamo sottolineato, il suo orrendo omicidio deve essere posto in connessione non certo con la figura iperbolica del padre e del patriarcato, che non esiste più dagli anni 60 del Novecento.
Al contrario deve essere posto in relazione con l’assenza del padre, tipica della civiltà tecnomorfa, e con la conseguente deregolamentazione integrale per soggetti a volontà di potenza totale, che quando incontrano dei “no” lungo la loro strada fanno comunque valere, costi quel che costi, il loro desiderio illimitato e autoreferenziale. D’altro canto, giova a ricordarlo, nemmeno Ipazia fu vittima del patriarcato.
Ella invece, che fu a tutti gli effetti una mente eccelsa della filosofia, fu uccisa per motivi di fanatismo religioso, come peraltro si può apprendere agevolmente anche da non esperti leggendo un qualsivoglia manuale universitario di storia della filosofia.
Insomma, diciamolo apertamente, anche il premio Nobel Parisi cade in questo caso vittima dell’ideologia dominante e delle sue frasi ipnoticamente e pavlovianamente ripetute ad infinitum. Tra queste frasi vi è, tra l’altro, quella secondo cui “è colpa del patriarcato”, di ogni male su questa terra è colpa sempre e comunque del patriarcato. In sintesi, possiamo concludere che sarebbe meglio se Parisi seguitasse a occuparsi, come egregiamente fa, di fisica e di questioni pertinenti ai suoi studi, senza sconfinare e avventurarsi in campi estranei che lo conducono inevitabilmente su posizioni francamente ridicole come quella che stiamo oggi discutendo.
Ciò è oltretutto la prova del fatto che non basta essere stati insigniti del premio Nobel per sapere esercitare sempre e comunque il pensiero critico. Anzi, vi sono casi in cui, ed è quello che stiamo discutendo, anche un premio Nobel può ripetere delle banalità che non hanno alcuna ragione di essere.
Radioattività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro