La domanda del popolo è da anni una: “dov’è la verità?”
Il quesito si è poi trasformato gradualmente, e inevitabilmente, in: “chi è la verità?”.
Una transizione, un errore. La scorrettezza dei quesiti sopracitati sta forse in una delle definizioni che si possono dare a “verità”: la verità non è di proprietà di nessuno. E’, invece, il risultato di un dialogo civile non certo privo di idee “personali”, non certo oggettivo al 100%.
O “scientifico”. L’obiettivo reale sarebbe difatti quello di tendere alla verità, non di detenerla “a turno”. E dunque, di far comunicare le ipotetiche due opinioni, non fazioni, diverse. Costruire, invece di sovrastare e zittire, sempre a turno. Perché le definizioni di “verità”, ma non solo, sono tante e innumerevoli proprio per questa sacra e democratica soggettività delle opinioni.
Altrimenti, si parlerebbe di una sorta di “Sacra Bibbia” da seguire pedissequamente.
Ancor prima del dialogo però c’è altro: l’osservazione partecipante e in profondità di ciò che accade. Con l’obiettivo, poi, di esporne le valutazioni. Nella politica odierna c’è poco spazio per questo. “Se qualcuno di noi – dice Fabio Duranti – decidesse di fare la politica attiva, dovrà distaccarsi dal ruolo di informatore e di comunicatore, di sollecitatore di idee e riflessioni, perché in quel momento ha un conflitto di interesse. In quel momento non è più dalla parte del cittadino come utente dei servizi della pubblica amministrazione ma diventa un candidato ad essere egli l’amministratore“. E’ il vecchio solito problema: ci sono potere e autorità, e anche gli interessi (che, ovviamente, non sono per tutti la vera priorità). La base fondamentale della politica sono però la comunicazione e l’informazione, unici elementi che, da soli non possono, idealmente, essere proprietari di nulla.
Né di ambizioni, né di verità.