Non è facile giudicare e l’intensità del pugno di Khelif l’ha sentita solo Carini; questo è un concetto sacrosanto. Detto ciò, una sensazione: la nostra atleta è arrivata sul ring dopo avere somatizzato giorni e giorni di dibattito extrapugilistico, extra sportivo, anche extra sessuale in un certo senso. Molti hanno definito transgender un individuo che non lo è: parliamo di iperandrogenismo femminile, ossia eccessiva produzione di ormoni maschili in un individuo di sesso femminile. Detto ciò, qualche dato sui risultati precedenti di Khelif contro altre avversarie: ai Mondiali di pugilato dilettanti è arrivata trentatreesima; a Tokyo 2020 si è fermata ai Quarti di finale; ai Mondiali di pugilato dilettanti femminile ha perso in finale. Sotto questo aspetto, dunque, non certo una schiacciasassi.
Fermarsi così dopo due pugni andati a segno quasi senza opposizione, per la nostra atleta potrebbe voler dire essere salita sul quadrato consegnandosi psicologicamente non tanto all’avversaria, quanto all’idea dell’avversaria che aveva maturato in giorni e giorni di dibattiti quasi istituzionali, quasi, nonché strumentalizzati dalla politica, come fin troppo spesso sta scandendo in questa caotica Olimpiade.
Ci dispiace molto perché una nostra atleta è salita sul quadrato impossibilitata a canalizzare concentrazione e tensione solo sul match e sulla ricerca della maniera migliore per affrontare la sua avversaria; ci dispiace forse ancora di più perché alla fine del battage grazie al quale politici e polemisti vari hanno ottenuto una vetrina in più rispetto a quelle che già hanno a disposizione, a essere messa all’angolo è stata la boxe stessa, della quale non si è potuto parlare e della quale, a molti di quelli che stanno ancora sbraitando, non frega quasi niente.
Paolo Marcacci