È un’icona del Novecento, l’immagine del suo profilo affilato ed elegante che sembra neutralizzare a ogni passo una fatica estenuante, come sapeva bene il regista John Schlesinger, che con alcuni fotogrammi in tono seppia di Bikila impegnato a Tokyo nel 1964 apre il suo capolavoro, quello nel corso del quale l’immagine del trionfatore ancora sconosciuto a Roma si affaccia più di una volta da una parete della stanza del protagonista Dustin Hoffman: “Il maratoneta”.
Canottiera verde, per celebrare uno dei colori della bandiera etiope; piedi scalzi, come aveva stabilito con il suo allenatore dopo che le scarpette fornite dall’Adidas gli avevano procurato delle piaghe fastidiose. Da bizzarra che era, all’inizio del percorso, con le fiaccole che accendono la notte lungo l’Appia Antica e l’Arco di Costantino illuminato dalle luci gialle e rosse dei riflettori, quell’immagine diviene via via più autorevole, quindi competitiva, alla fine trionfale, quando lui, Abebe Bikila, nato il 7 agosto 1942, che si allenava a livello professionale da soltanto quattro anni e che in precedenza aveva vinto soltanto una maratona in patria, fa il suo ingresso sotto l’Arco a braccia aperte, quasi simboleggiando l’apertura e il cosmopolitismo veicolati dall’Olimpiade più puramente sportiva e meno politicizzata della storia moderna dei Giochi.
Discendente da una generazione di pastori, Bikila nacque a Jato, nel cuore dell’Etiopia, il 7 agosto del 1932. Trasferitosi in Addis Abeba per aiutare la famiglia, venne arruolato nella Guardia Imperiale, dopo che sin dai tempi della scuola elementare si era messo in luce per la predisposizione alle attività sportive e alla corsa in modo particolare. Divenuto membro della scorta dell’Imperatore Hailé Selassié, Bikila iniziò ad allenarsi in modo via via sempre più serio e da un certo momento in poi del tutto professionale dalla seconda metà degli anni Cinquanta, dopo che era stato notato durante le attività ricreative e amatoriali da Onni Niskaen, il preparatore svedese che era stato incaricato della preparazione atletica dei militari della Guardia Imperiale.
Col senno di poi, potremmo operare una similitudine eterogenea tra memorabili imprese sportive, con l’Africa in un modo o nell’altro protagonista: nascondendosi per due terzi del percorso, prima di accelerare sfruttando l’altrui acido lattico, Bikila a Roma ha vinto con la stessa filosofia con la quale Muhammad Ali quattordici anni dopo metterà al tappeto George Foreman a Kinshasa, nell’allora Zaire, dopo averlo subito per almeno sei riprese.
Il 25 ottobre del 1973, esattamente mezzo secolo fa, Abebe Bikila saluta il mondo dopo essere stato colpito da un’emorragia cerebrale. Ha quarantuno anni, non ha forse nemmeno fatto in tempo a capire che di lì a qualche decennio dovrà essere annoverato tra quelli che, fattivamente, hanno contribuito al progresso dell’Africa. Sempre tenendo fede a quella massima di Nelson Mandela, secondo la quale il linguaggio dello sport arriva con immediatezza laddove altri messaggi fanno molta più fatica.
Paolo Marcacci