La lezione di Fusaro ▷ “Così la dittatura del sapere si sta per trasformare in dittatura del sapore”

Stiamo assistendo alla distruzione dell’identità anche a tavola, e anzi forse soprattutto e la globalizzazione diventa anche una omologazione dei palati, quella che io chiamo la dittatura del sapore, che va a completare la dittatura del sapere“.
Reduce dal suo ultimo libro “La dittatura del sapore“, il saggista Diego Fusaro è intervenuto in diretta per spiegare quali siano i legami tra la coercizione degli ultimi decenni e l’omologazione anche in ciò che mangiamo.
Sin dai tempi di Platone infatti impugnare una forchetta non è solo un gesto che ha un significato biologico. Di quello sfamarsi primitivo, all’uomo non è rimasto nulla, tanto da rendere il mangiare un’azione alta e simile al pensare.
Nel video le riflessioni di Fusaro.

“Ho scritto questo libro per due motivi principalmente, il primo perché il rapporto tra la pancia e la testa, tra il cibo e la filosofia è un rapporto tutto sommato poco esplorato, che è diventato oggetto di riflessione solo recentemente, perché sembra che la testa e la pancia siano dimensioni contrapposte, senza alcuna connessione. In realtà io ho provato a mostrare come si dà una connessione profondissima tra il pensiero e l’alimentazione.

E poi per un secondo motivo, più di ordine pratico e contingente se vuoi, cioè il fatto che stiamo assistendo già da anni a una vera e propria battaglia che va a colpire, a destrutturare i fondamenti della nostra cultura alimentare e della nostra identità gastronomica. Assistiamo quotidianamente a proclami dell’Unione Europea che vanno a colpire i fondamenti della nostra civiltà gastroalimentare come l’olio d’oliva, il pane, il vino e insieme con movimento simmetrico si propongono nuove idee gastronomicamente corrette come le larve, i grilli, la farina di mosche, la carne sintetica e quant’altro e dunque per questi due motivi ho deciso di esplorare filosoficamente un tema particolarmente gustoso e saporito, per rimanere in tema. Diceva l’antropologo Lévi-Strauss che è buono da mangiare solo ciò che è buono da pensare, dunque ogni volta che noi mangiamo pensiamo il cibo che stiamo per ingerire e questo ci differenzia da tutti gli altri viventi, perché se è vero che tutti i viventi, vegetali, animali che mangiano, si nutrono, si alimentano, è solo l’uomo che mangia in senso proprio, nel senso che pensa ciò che mangia, prepara il cibo e lo seleziona, lo coltiva e lo cucina.

I tedeschi, che sono in questo più precisi di noi, hanno due verbi distinti per alludere al mangiare degli animali e al mangiare degli umani. Mi pare particolarmente interessante questa distinzione: anche in italiano si dice proverbialmente ai figli, quando dicono che hanno fame, “no non hai fame hai appetito!” perché sono le bestie che hanno fame e quindi c’è una dimensione propriamente umana del mangiare che fa sì che l’uomo sia anche l’animale che mangia perché prepara il cibo e lo pensa lo coltiva e lo produce e tanti altri elementi. Il filosofo Feuerbach disse una volta ed è anche il titolo di un suo testo, giustamente fortunato, “l’uomo è ciò che mangia”.

In effetti noi siamo ciò che mangiamo non solo sul meramente materiale perché il nostro corpo vive grazie agli elementi che ingeriamo e che vanno a comporne le strutture, ma siamo ciò che mangiamo anche sul piano simbolico culturale identitario, la nostra identità non trova luogo più appropriato e più radicale in cui esibirsi e costruirsi se non sulla tavola, la tavola è davvero un modo grandioso in cui si costruiscono le identità dei popoli e delle culture, ed è anche un modo in cui dialogano e si intrecciano le identità dei popoli e delle culture. Se pensiamo ad esempio che la nostra cultura mediterranea alimentare nasce dall’incontro costante con nuove culture, con quella islamica ad esempio, o non avremmo le melanzane. Oppure con quella poi delle Americhe, quando con la prima modernità arrivano in Europa tutta una serie di elementi e di alimenti che prima erano sconosciuti. Questo ci permette di dire che il modo di mangiare è anche un magnifico modo in cui si ripete il rapporto tra le identità e le culture.
Il rapporto multiculturale presuppone che vi siano identità e culture differenti e questo mi permette di svolgere alcune discussioni critiche sul mondo della globalizzazione gastronomicamente corretta, che invece vorrebbe imporre un modo unico di mangiare e di concepire il cibo, un modo omologato.

Stiamo assistendo alla distruzione dell’identità anche a tavola, e anzi forse soprattutto e la globalizzazione diventa anche una omologazione dei palati, quella che io chiamo la dittatura del sapore, che va a completare la dittatura del sapere”.