Nell’occhio del mirino c’è il ruolo del medico e l’evoluzione, o involuzione a seconda dei punti di vista, che ha subito a partire dal periodo d’emergenza pandemica. Le riflessioni che gravitano attorno alla professione medica sono le più svariate e la maggior parte di esse prende a riferimento il Codice Deontologico Medico, più volte minacciato da proposte di riforma. Nello specifico l’articolo 13, ripetutamente soggetto a singolari interpretazioni in casi di emergenza, vedi vigile attesa e protocolli Covid.
Parte proprio da qui la riflessione dell’endocrinologo e docente universitario Giovanni Vanni Frajese sul mutamento della figura professionale del medico, nello specifico del medico di base: “C’è stata, dopo il Covid una vera e propria trasformazione del ruolo del medico. Un tempo, il medico era un artista, un filosofo, una persona con una vasta cultura, in grado di comprendere il paziente sotto vari aspetti e trovare la migliore strategia per guarirlo. Non si trattava solo di intervenire dal punto di vista farmacologico, ma anche psicologico, poiché l’effetto placebo dipende in gran parte dalla capacità del medico di entrare in empatia con il paziente. Il processo di guarigione inizia proprio da questo contatto.
Oggi, invece, il medico è diventato un burocrate, costretto a ripetere in modo acritico e senza alcuna coscienza ciò che gli viene imposto dalla gerarchia. Un esempio lampante di questa trasformazione è stato il protocollo di “tachipirina e vigile attesa” adottato durante la pandemia, un protocollo che, a dire il vero, non era obbligatorio, ma solo consigliato. Tuttavia, questo è bastato: nove medici su dieci lo hanno applicato, pur essendo ridicolo e privo di qualsiasi fondamento scientifico o storico. Non si era mai visto un medico che, di fronte a un paziente malato, gli dicesse di prendere un antipiretico come la tachipirina e di “aspettare”, senza nemmeno prescrivere un antinfiammatorio. Questo rappresenta una negazione totale di ciò che il medico dovrebbe essere e fare“.