Come possa compiere gli anni qualcosa che di per sé non avrà mai età? È il motivo per cui la poesia resiste al poeta, è destinata a sopravvivergli.
Duecento anni fa “L’infinito” vedeva la luce dalla penna di Giacomo Leopardi. Perché continua a incantare, oggi come allora? Semplice: celebra una delle occasioni che hanno gli uomini per la felicità, vale a dire quella delle illusioni. Una delle poche, secondo il poeta, ma non bisogna essere d’accordo in assoluto con le sue conclusioni sul senso dell’esistenza; del resto Leopardi fu innanzitutto un filosofo, che all’incanto dei versi affidò le sue conclusioni sull’esistenza. Versi senza rime, nella fattispecie, endecasillabi sciolti che però “suonano” per la maestria della cadenza ritmica, e degli accenti.
Quel che conta è lasciarsi cullare dal vento che soffia tra le foglie, dall’accostamento di vocaboli estremamente comuni con altri rari è già quasi arcaici all’epoca (ermo colle); dall’incanto degli aggettivi che rimandano a una dimensione trascendente, oltremondana: gli interminati spazi, i sovrumani silenzi. Salvo poi, però, ricordarci che ogni slancio nasce dalla nostra mente, dalla fantasia che sa essere smisurata: io nel pensier mi fingo. Mi fingo: mi costruisco, voglio volutamente illudermi, lasciarmi andare alla fantasia; mi basta una siepe, davanti al balcone, che chiude la visuale all’orizzonte reale e mi consente di immaginarne un altro.
Ecco perché, due secoli dopo, il naufragar ci è ancora dolce, in questo mare.
Grazie di tutto.
Paolo Marcacci