Una premessa: chi dice che Roma, sponda giallorossa, è una piazza difficile, dovrebbe riconsiderare gli aggettivi: persino domenica scorsa, termine di Roma – Bologna, c’erano tifosi che a un’ora dal termine della partita aspettavano che uscissero i giocatori per chiedere selfie e autografi, pur con tutto il malumore immaginabile. Questo per dire che se giochi nella Roma basta fare o aver fatto qualcosa di buono per vivere da re e di rendita, come dimostrano anni di sold out a prescindere dai risultati.
Ora che Claudio Ranieri, ovvero quello che avrebbe avuto più scuse a disposizione – anagrafe compresa – per rifiutare, ha detto sì, a fronte di tutti gli altri che non se la sono sentita, si verifica uno scenario paradossale: nel momento stesso di un nuovo inizio (l’ennesimo) per quanto riguarda la guida tecnica, c’è una fine, una deadline, un passaggio a livello che si abbassa. Per i giocatori si esauriscono oggi anche gli alibi residui.
Un signore di settantatré anni (73) accetta di maneggiare una patata bollente con la quale tutti gli altri allenatori (di livello top, medio alto o improponibili che dir si voglia) che sono stati sondati hanno avuto paura di scottarsi. Questo è, nulla di più o di meno. I vari Mancini, Cristante, Pellegrini, El Shaarawy, Pisilli, Baldanzi ecc, vecchia e nuova guardia, cosiddetti senatori o emergenti, hanno solo una opzione possibile: cercare di meritarselo, uno come Ranieri. Un super professionista che ha onorato le responsabilità professionali ovunque sia stato, ma che al tempo stesso è tornato, ancora una volta, a dimostrare con i fatti che la Roma oltre a un’occasione professionale è un bene assoluto.
Non pretendiamo che Dovbyk o N’Dicka, tanto per citare due esempi, si scoprano visceralmente romanisti come Ranieri o come chi ha la Roma nel cuore da sempre: pretendiamo che dimostrino rispetto, con i fatti e con le rincorse fino alla fine, non solo a metà, da Ranieri fino all’ultimo dei tifosi.
Paolo Marcacci