Troppo grande per un solo Dio

Cinque anni fa si spegneva all’età di 74 anni la più grande leggenda che il mondo del pugilato abbia mai conosciuto: Muhammad Ali.

Non è stato un nero di successo, perché di quelli ce n’erano già tanti e sempre di più ce ne sarebbero stati, dagli anni cinquanta in poi: nello sport, nella musica, nel cinema. Lui è stato il primo nero a interpretare a modo proprio la maniera di vivere il proprio successo. Già soltanto per questo, nel momento in cui costruiva la propria storia personale, non solo pugilistica, il suo vissuto intersecava la Storia con la maiuscola: nelle sue istanze di autodeterminazione c’era già il cambiamento di un’epoca. Proprio per questo, mosse una sconfinata adorazione nei suoi confronti e un odio forse ancora più intenso: la cosa più “grave” che fece, agli occhi dell’America bianca, perbenista e anglicana, non fu rifiutare l’arruolamento per il Vietnam, nemmeno l’adesione alla discussa setta dei Musulmani Neri di Eljiah Muhammad; fu che si permise di essere come voleva essere. Come se fosse un bianco o, per meglio dire, come se si fosse dimenticato di essere nero. 

È il motivo per cui i “WASP” hanno fatto sempre il tifo per il suo grande avversario di turno; nero come lui ma che ai loro occhi diventava bianco nel tentativo di sconfiggere quel nuovo, temibile, autodeterminato prototipo di nero. Ed è il motivo per il quale anche a lui quei suoi avversari apparivano così “pallidi”: erano grandi campioni ma asserviti a un sistema in cui il nero, sia pur di successo, era pur sempre una sorta di pittoresco pesce in un acquario, al quale il bianco generoso distribuiva il mangime della gloria, della rispettabilità borghese, della ricchezza. Proprio come allo Zio Tom. E così prese a chiamarli così, i suoi sfidanti neri: – Sei uno Zio Tom! – ossia il nero mansueto e affidabile, che ringrazierà per sempre il buon padrone bianco. 
È in questo modo che si specializzò nell’arte dell’insulto prebentivo: il “trash talking”, col quale cominciava a demolire il rivale prima ancora di trovarselo di fronte sul quadrato. Sarebbe diventata un’arte per davvero, anche in politica. Così come certe sue filastrocche rimate, inventate sul momento, sembra abbiano fatto germogliare la musica rap. 

Che atleta è stato e che posto occupa nella storia della boxe e del suo salone più esclusivo, ossia la categoria dei Pesi Massimi? Partiamo da un paradosso: non è stato forse il migliore in assoluto, perché quello era Joe Louis; non il più cattivo, perché quello era Sonny Liston; nemmeno il più irriducibile, non come “Smoking Joe” Frazier; non il più forte come Foreman e neanche il più terrificante, come Mike Tyson. Ma fu unico in una specialità: trascinare l’avversario sul terreno che lui sceglieva per decidere l’esito della lotta, irretendoci nelle maglie del suo prodigio atletico, imprendibile nella sua danza in mezzo ai dinosauri.

Ecco perché è stato il più grande. E seppe poi rinascere, dopo la lunga squalifica, sviluppando la tattica del programmato sfiancamento altrui: “Rope a dope”, prendi al laccio l’imbecille. Chiedete a George Foreman, quanto ci mise a razionalizzare la sua notte africana da stra – favorito mondiale. O a Frazier, che a Manila disse: – Gli ho dato pugni sufficienti a buttare giù un palazzo -. 
È stato l’unico uomo al mondo celebre con due nomi diversi, essendo diventato Campione del mondo la prima volta come Cassius Clay. Forse anche per questo, quando ha salutato il mondo, ha continuato a battere per mezz’ora dopo la morte di ogni altro organo, il cuore di Muhammad Ali, troppo grande per un solo Dio.

Paolo Marcacci