Quando un Campione lo pensi con la maiuscola, diventa persino secondario lo sport che lo ha consegnato alla leggenda.
Brillano le doti dell’uomo, oltre ogni traguardo contingente, oltre ogni successo di tappa, oltre l’arcobaleno dei colori delle maglie guadagnate chilometro dopo chilometro, rapporto dopo rapporto, tornante dopo tornante. Laddove anche i motori delle moto che scortano i cronisti rischiano di fondere per le pendenze.
Ora che ci riflettiamo, Felice Gimondi aveva, anzi avrà per sempre un profilo affilato, come il Coppi di Gino Paoli; un paio di occhi buoni, o meglio bonari, come il Bartali di Paolo Conte.
Una faccia da italiano di cui andare fieri; un uomo del nord di cui essere entusiasti dalle Valli bergamasche fino a Cefalù.
Il ciclismo degli anni sessanta e settanta è stato lo sport più popolare in assoluto, anche più del calcio se possibile: un rito dispiegato, quasi spalmato lungo l’asfalto di ogni provincia, ancora non contaminato dagli scandali, in un’Italia che stava mutando ma che ancora si riconosceva intorno ai grandi che la rendevano orgogliosa, con i campioni che regalavano una folata di vento al loro passaggio, così vicini da poter leggere la fatica sui loro volti.
È stato grande al punto tale da essere all’altezza del più grande, Felice Gimondi: le sfide con Eddy Merckx non hanno mai indotto i tifosi italiani a vedere un nemico nel ‘Cannibale’ belga; al contrario, la grandezza dell’uno ha alimentato quella dell’altro, in un alone di reciproco rispetto così solenne da contagiare anche il pubblico.
Eppure la grandezza dell’uomo, di cui dicevamo, l’abbiamo vista soprattutto quando il campione era già sceso di sella: 1998, Parigi, la premiazione di Marco Pantani sui Campi Elisi, al termine di quel fantastico Tour; quasi più emozionato del Pirata, Felice Gimondi che lo premiava, orgoglioso come soltanto un italiano già stato grande può essere nel passare il testimone a chi ha meritato di raccoglierlo.
L’unico paradiso di cui si può essere certi è la stima istintiva che il ricordo di chi saluta lascia nel cuore di chi resta; volendo pensare oltre la gratitudine che Gimondi lascia nella memoria, non ci viene in mente la destinazione, ma il percorso, con un puntino giallo che sale inesorabile, come la sua maglia al Tour de France del 1965.
Paolo Marcacci
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