Il derby è servito ai laziali per tornare con i piedi per terra, se mai avessero preso a sognare. Non è pronta la Lazio per i grandi palcoscenici, per le sfide Champions. Partite sciatte, vuote, come quella giocata contro la Roma fanno fare molti passi indietro. Inutile illudersi.
I Lotito boy’s sanno vincere solo con squadre ufficialmente più deboli, ma le beccano anche pesantemente con le altre. Non può essere un caso se in sette partite sono stati messi sotto da Juve, Napoli e Roma. Si può perdere ovvio, ma c’è modo e modo. Ieri la Lazio ha scelto quello peggiore. Resuscitare la Roma in coma, dentro una crisi di gioco e di identità, era un esercizio difficile ma Inzaghi ed i suoi ci sono riusciti alla perfezione.
Lo sport ha dei valori di base che il tempo e la modernità non scalfiscono. La determinazione, l’impegno, l’agonismo, la voglia di combattere di non arrendersi mai, l’applicazione, la concentrazione, di tutto questo solo flebili tracce biancocelesti. La Lazio ha affrontato la Roma lasciando negli spogliatoi gli “attrezzi morali” del mestiere ma soprattutto si capisce che non ci crede, non ha più gli stimoli feroci per arrivare all’obiettivo massimo. La squadra non crede nel sogno Champions, si vede, si percepisce che lo spirito di gruppo dello scorso anno è svanito. Perduto tra egoismi, voli pindarici, errori di mercato e di scelte sul campo.
Il tutti per uno, uno per tutti è solo un ricordo. Disarmante, forse avvilente, come si approcciano alle partite taluni calciatori assurti a idoli e a valutazioni di mercato stratosferiche. Svagati, svogliati, sciatti, sembra siano rimasti con le catene. Il simbolo della Lazio sparita è Luis Alberto, irriconoscibile. Penosa controfigura di se stesso. Eppure intorno non ci sono squadre stratosferiche, tolta la Juve tutte hanno difetti più o meno gravi ma chiedere alla Lazio di quest’anno di approfittarne è davvero credere nei miracoli.
Ilario Di Giovambattista