Lieve come i suoi aggettivi, che al tempo stesso sapevano essere profondi, la sua uscita di scena. Repentina e improvvisa, pur se diversa nelle modalità, come quella di Gianni Brera, che non fu soltanto una sorta di padre putativo per lui, ma anche uno che poteva avergli tramesso qualche tratto somatico, per un qualche scherzo o tributo del destino.
Di certo, se un erede designabile di Brera è davvero mai esistito, questo rispondeva al nome di Gianni Mura: osservatore dei costumi, dei quali sapeva essere mordace censore, in vari ambiti; testimone di decenni di imprese sportive: il racconto riservato al calcio, la narrazione al ciclismo, ci verrebbe da dire.
Visto attraverso i suoi occhi, il Tour de France si faceva di un giallo più brillante, più fulgido, ché il piacere della lettura contagiava anche chi non era così fedele al pedale. E ha raccontato anche il piacere della tavola, con sapienza e competenza assoluta, declinandolo in mille varianti locali, più che regionali. Sembrava che dalla sua penna, o dalla tastiera se preferite, riuscisse in qualche modo, il suo modo, a tradurre ciò che voleva far arrivare alle papille gustative, a cominciare dalla struttura di un vino degno di essere definito tale.
E non era mai del tutto iniziata, la domenica, senza la ricognizione sarcastica della sua settimana di cattivi pensieri, che in realtà sono stati, fino alla fine, il nostro terzo occhio su fatti e personaggi.
Ora che, dolorosamente e con tutta la desolazione possibile ci pensiamo, lui va a comporre una triade ideale, eccelsa per scrittura (servizi televisivi compresi), conoscenza e ironia, dei grandi fra i grandi che ci hanno lasciato da un momento all’altro: Gianni Brera, dicevamo; Beppe Viola che fu il primo e ora lui, Gianni Mura, che quando doveva salutare qualcuno scriveva sempre “gli sia lieve la terra”.
Da oggi per noi lo è ancora meno, impreparati come siamo a vivere senza le sue righe preziose, le sue parole scelte o escluse ad arte, i suoi brindisi altrettanto eletti.
Paolo Marcacci