“Sull’utilità e il danno della storia per la vita”, era questo il titolo della seconda delle “Considerazioni Inattuali” di Federico Nietzsche. Abbiamo bisogno della storia per la vita e per l’agire, argomentava il filosofo dell’eterno ritorno di tutte le cose. Abbiamo, in altri termini, bisogno della storia critica, ossia di quella che guarda al passato come miniera di insegnamenti per agire nel presente in vista del futuro.
Dobbiamo, invece, guardarci dalla storia monumentale, la quale contempla agiograficamente il passato e, così facendo, si preclude l’azione: finisce per rimanere paralizzata nella rammemorazione del passato, innalzato a oggetto di culto permanente.
Con queste categorie nietzscheane, direi che dovremmo rapportarci al 25 aprile nei termini della storia critica: dobbiamo apprendere dalla lezione di chi lottò contro la repressione e i soprusi, per fare sì che quella lezione torni a inverarsi ogni qual volta prendano di nuovo forma repressione e soprusi. È la lezione imperitura del 25 aprile.
E invece accade troppo spesso che la Liberazione venga celebrata con i fasti della storia monumentale: con la conseguenza paradossale per cui molti che la celebrano accettano con ebete letizia i nuovi soprusi e le nuove violenze che popolano il nostro presente.
Quanto più cantano a squarciagola “Bella ciao”, tanto più rivelano di non aver appreso nulla dalla storia della Liberazione. E di essere addirittura, molto spesso, complici della violenza e della repressione che dovrebbe con forza combattere chi avesse appreso davvero la lezione del 25 aprile.
Penso alle memorabili scene – apice della più abietta subalternità – di chi anni addietro cantava “Bella ciao” e, insieme, appoggiava con gaudio la UE, che è poi la nuova versione – rigorosamente economica – della violenza contro cui combatterono i partigiani.
Penso a quanti oggi cantano convintamente “Bella ciao” e lottano contro un fascismo immaginario, che coincide o con gruppetti irrilevanti e folklorici o, non di rado, con forme di reale resistenza alla nuova violenza dell’economia capitalistica (popoli e Stati non allineati, demonizzati come fascisti): usano l’antifascismo in assenza di fascismo come alibi. Come alibi per giustificare, con la lotta al fascismo che non c’è più, la loro piena adesione al totalitarismo della civiltà dei mercati, a cui hanno venduto testa e cuore.
Penso, ancora, a quanti in questo 25 aprile 2020 canteranno “Bella ciao” reclusi in casa, con l’esercito che blinda le strade, i droni che li sorvegliano dall’alto e l’app da scaricare sul cellulare per controllare ogni movimento: urlano contro il fascismo e, insieme, accettano silenziosamente con la più idiota subalternità la sua nuova figura, che è quella del “distanziamento sociale” e del nuovo ordine mondiale, reso ancora più forte dal virus.
L’ho detto e lo ridico: se avessimo davvero appreso qualcosa dal 25 aprile, oggi saremmo in prima linea a combattere contro il nuovo potere, che non è più quello clerico-fascista, ma è quello nichilista e relativista della civiltà dei consumi e, oggi, dello stato terapeutico globalista che in nome della sanità toglie fino all’ultima libertà.
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