La Roma di Fonseca, nello scorso campionato, concludeva poco in porta anche quando c’era il centravanti vero. Figurarsi ieri al “Bentegodi” con quello falso, con tutto il rispetto per Mkhitaryan, ieri non trascendentale a Verona.
I tifosi della Roma sarebbero stati ugualmente delusi per un pareggio caratterizzato da una già vista difficoltà realizzativa e da un calo di prestazione nella seconda parte di gara; però, perlomeno, se non avessero visto Dzeko in panchina non avrebbero provato imbarazzo. Diciamo che può sembrare giustificabile, dopo un primo tempo trascorso a occupare la metà campo di un Verona messo su con i cerotti, ripresentarsi con la stessa formazione dopo l’intervallo.
Diciamo, allo stesso modo, che allo scoccare dell’ora di gioco tutti, ma proprio tutti quelli che stavano assistendo alla gara (i veronesi, i romanisti, i neutrali) hanno pensato che Fonseca stesse per calare il bosniaco nella contesa.
Intorno all’ottantesimo minuto, due diversi livelli di frustrazione devono aver assalito i tifosi della Roma: il primo livello dovuto alla visione del solito, reiterato fraseggio simile a un petting protratto per troppo tempo; il secondo livello motivato invece dal prendere atto che il volto del numero nove in panchina era soltanto una specie di cartolina per le inquadrature e per le chiacchiere dei vari post-partita.
Dall’imbarazzo alla farsa, infine, quando Fonseca ha motivato il mancato utilizzo di Dzeko con la mancanza di tranquillità evidenziata in settimana dal giocatore. Ma allora, perché portarlo? Se la convocazione poteva assomigliare a una sorta di prova di forza verso De Laurentiis (se fai il prezioso con Milik, mi tengo Dzeko), non averlo fatto giocare equivale ad ammettere che è già come se fosse andato via.
I tifosi della Roma hanno già un bel daffare con le loro perplessità; non serviva questa specie di provocazione a base di gratuito imbarazzo.
Paolo Marcacci