Dieguito
La tristezza mi avvolge come una cappa nera schiacciante. Pochi minuti fa, ho vissuto uno dei dolori più forti della mia vita. E’ morto Diego Armando Maradona e per me è come se fosse morta una parte della mia anima.
Il primo che mi parlò di Dieguito fu Don Marcelo Ganguy, Addetto culturale dell’Ambasciata Argentina presso Roma, dal 1977 in poi. All’epoca, io ero amato presso l’Ambasciata perché avevo composto da qualche anno la canzone “Argentina” portata al successo per la CBS, da Gianni Nazzaro.
Don Marcelo ‘quel giorno’ mi raccontò, col suo vocione porteño, tutta la storia del giovane ‘pelusa’. Asserì con orgoglio che ‘el pibe’ era stato una stella nel Mundialito del Giappone. Poi concluse dicendo: “Es mejor que Pelè!” Io, naturalmente, sorrisi…con una espressione scettica. Avevo visto giocare Pelè dal vivo nel campo del Newell’s Old Boys e mi sembrava impossibile come diceva don Marcelo, che qualcuno lo avesse potuto già, a 17 anni, superare. In realtà, pensai che neanche in prospettiva futura ci sarebbe riuscito nessuno. Sbagliai in pieno.
Dal 1976 ero il direttore artistico di Telestudio 61 di Roma. Nel 1979 Diego venne a Roma con la nazionale blancoceleste allenata da Menotti e io ebbi, grazie ai ‘rispetti’ nell’ambasciata, l’esclusiva dell’intervista e la possibilità di ‘far fare la pace’ al mitico Gianni Minà, con la nazione argentina. Ma questo è un altro racconto.
Ricordo che all’Hilton, dove alloggiava la Selecciòn, intervistai per primo l’allenatore ‘el flaco canalla’ Menotti, poi il capitano Passarella, poi Bertoni, e via via tutti gli altri. Poi dissi a mio fratello che conduceva con Piedone Manfredini un programma sportivo a Telestudio: “Pino, intervista tu questo ragazzo”(il ragazzo era Dieguito). “Mi ha detto Don Marcelo che è un zurdo meraviglioso, come te.” Pino lo intervistò e a lui è rimasto l’onore della prima intervista italiana in assoluto della storia al mito più irraggiungibile del calcio. La cassetta con il video è una di quelle cose che custodisco gelosamente in attesa di trovare qualcuno che la possa riversare, prima o poi, senza danneggiarla.
Ho incontrato altre volte Diego ed egli è stato sempre dolce, timido, educatissimo. Mi chiamava ‘signore’. Nel 1982 gli inviai a Barcellona la mia prima canzone dedicata a lui. Lui rimase contento ma lo sentii già un po’ cambiato. Pensai che fosse dovuto allo stress. Le notizie che mi arrivavano tramite gli amici catalani, quelli dell’ambasciata e gli artisti argentini con cui mi incontravo, era che ormai si stava distruggendo con la ‘falopa’. Ossia la maledetta droga era entrata nella sua vita.
Voglio parlare di questo mito semplice che ha distrutto se stesso perché non è riuscito a eliminare dalla sua psiche la sua infanzia in Villa Fiorito, con l’anima serena; ma non riesco. I ricordi si accavallano e l’emozione che mi producono mi travolgono impedendomi di essere elegante nella scrittura e metodico. E’ come se la morte di Diego mi abbia messo il soma e la psiche in un caos emotivo incontrollabile.
La sua infanzia, bella per certi aspetti e devastante per altri, è secondo me, l’origine della sua autodistruttività. Nessun successo al mondo può cancellare le ferite che la povertà e la fame lasciano nell’anima dei bimbi. El barrio ci fa diventare apparentemente duri, con las pelotas, ma in fondo in fondo, il dolore della povertà persiste oltre la ricchezza economica, fino a distruggere, rendendo fragili, finanche i miti, come lui.
Per quello che so, Diego ha dialogato con molti psicanalisti; ma non è semplice psicanalizzare un uomo divenuto più famoso di Cristo. E non è una bestemmia: è la realtà. L’onnipotenza e il narcisismo, probabilmente non è semplice da eliminare dall’anima di alcuni prescelti.
C’è in giro un fotografo di cui non ricordo il nome al quale nel 1990 permisi di fare (d’accordo con Diego) un servizio straordinario. In un ristorante di Sanremo dove insieme a Hector Cavallero e Valeria Lynch lo avevamo invitato, per l’esibizione di Valeria al Palafiori, eravamo al tavolo: Diego, Claudia, Dalmita, Hector, Valeria, Giorgio Ferrara, Mia Martini ed io. Diego senza volerlo fermò tutto il festival di Sanremo, quando entrammo. I giornalisti lasciarono i cantanti e scappano incontro a lui, mettendo in pericolo la vita di Dalmita. Diego alzò le braccia e mi gridò: “Agarrala vos, Mimo”. Io la afferrai e ci mettemmo da parte. Lui era sparito fra fotografi e macchine fotografiche e telecamere. Si era innamorato della mia canzone “Una storia da raccontare”. E la ballava con gioia: era una lambada.
Diego, oramai è in un’altra dimensione, dove finalmente potrà ricongiungersi alla sua amata madre, la Tota, e al suo caro padre, che s’addormentava sul ‘colectivo’ quando lo portava da bambino ad allenarsi con l’Argentino Junior.
E’ difficile scrivere un articolo con le lacrime agli occhi. Scusate, non riesco ad andare avanti. Diego un abrazo animico.
Mimmo Politanò