Una chat, poche informazioni sul virus e nessuna indicazione da parte degli enti ufficiali: così i medici Andrea Mangiagalli e Laura Frosali hanno dato vita a ‘Medici in prima linea’.
Si tratta di una chat WhatsApp che ha permesso, e permette tutt’ora, a centinaia di medici di confrontarsi su come affrontare insieme la malattia.
Un’intuizione che si è rivelata fondamentale. Grazie a quel confronto virtuale, infatti, è stato formulato un trattamento domiciliare a base di Idrossiclorochina, Azitromicina ed Eparina che ha messo in salvo numerosissimi pazienti Covid.
“L’idea di cosa fare con questa malattia a noi è stata preclusa per mesi – ha detto ai nostri microfoni il Dott. Andrea Mangiagalli – i medici di medicina generale erano completamente isolati”.
Una testimonianza che diventa denuncia, quella del medico di medicina generale dell’ASL di Milano: per mesi, infatti, nessuna indicazione è stata data dagli enti ufficiali su cosa fare concretamente contro il virus.
Il racconto in questa intervista di Francesco Vergovich e Fabio Duranti.
L’INCREDIBILE STORIA DEI 200 MEDICI IN UNA CHAT ▷ “Così abbiamo capito da soli come curare il Covid”
La chat dei medici su WhatsApp
“Alla fine di febbraio, quindi subito, insieme alla collega di Milano Laura Frosali, abbiamo costituito questa chat perché ci eravamo resi conto che questa non era la solita malattia. Abbiamo deciso di radunare lì colleghi per far sì che i medici si confrontassero su quello che stavano facendo.
Ben prima che Aifa autorizzasse l’utilizzo in via sperimentale, siamo arrivati a pensare un trattamento combinato con tre farmaci che sono tutt’ora criticati da più parti, cioè Idrossiclorochina, Azitromicina ed Eparina.
Quello che avevamo capito era che il ricovero in ospedale portava pochi benefici e trattare precocemente questi malati a casa era l’arma vincente.
I pazienti nel giro di pochissimi giorni stavano bene. Pochissimi i ricoverati in ospedale, ma soprattutto nessuno di questi pazienti da noi trattati a domicilio è morto”.
“Ci hanno lasciati soli”
“Noi all’inizio abbiamo avuto l’informazione che questa era una polmonite interstiziale, ci siamo fidati. Poi abbiamo capito che c’erano altri aspetti legati per esempio alla coagulazione.
Sono arrivate informazioni molto scarne dalla Cina, le polmoniti interstiziali si conoscono da tanti anni quindi le abbiamo curate altre volte. Abbiamo dunque preso per buone queste informazioni nella prima fase. Dopodiché, quando abbiamo capito che era una cosa più complessa, non potendo avere neanche una diagnosi corretta, abbiamo messo insieme i sintomi e a quel punto non avevamo neanche bisogno di visitarli.
Le prime informazioni sulle autopsie non ci sono arrivate tramite canali ufficiali, le informazioni uscivano direttamente dai reparti ospedalieri. I medici di Medicina Generale erano completamente isolati, fuori dal mondo. Non abbiamo avuto nessuna informazione dagli organi competenti se non una marea di circolari di tipo amministrativo e burocratico. L’idea di cosa fare con questa malattia a noi è stata preclusa per mesi”.