“Sembra che pensino che chi è nel teatro non lavori sul serio… Un paese senza cultura è un paese morto” ▷ Intervista a Roberta Blasi

“Il teatro, già prima del COVID, era percepito come il “fratello povero” del cinema; come tale, non ha beneficiato delle stesse attenzioni ed è stato gestito con regole diverse: per fare un esempio, noi non abbiamo mai ottenuto il “Tax Credit”, che per il cinema è arrivato e ha fatto respirare almeno un po’ le aziende del settore. È come se noi del teatro non venissimo percepiti anche come aziende, che poi devono far fronte a costi di natura varia, ma soltanto come attività ludiche. Come se chi ci lavora non lavorasse sul serio…”.

Una chiacchierata con Roberta Blasi, Direttore artistico (e molto altro) del Teatro Ghione di Via delle Fornaci, a due passi da San Pietro.

Come avete vissuto l’irruzione della “questione COVID” nel bel mezzo delle vostre attività, nel marzo del 2020?

“Eravamo in pieno allestimento di una versione dell’ “Otello”. A gennaio nessuno poteva prevedere nulla; a febbraio nemmeno. Praticamente abbiamo debuttato e chiuso, in un clima surreale, il 5 marzo del 2020: una replica interna, soltanto un regalo a noi stessi, agli autori e ai tecnici; con un pubblico esclusivamente di familiari e amici. E rispetto alla semplice prova generale del giorno prima, tutto un altro stato d’animo. Tutto un altro spettacolo, oserei dire. E, ovviamente, non potevano avere idea di quanto sarebbe durato. Perché ancora dura, in effetti…”.

Come giudichi il livello dell’attenzione ricevuta dalla politica prima e dai media poi?

“Nello specifico, ho un giudizio tutto sommato positivo dell’operato del Ministro Franceschini, che insiste molto anche sulle alternative: spettacoli virtuali, streaming, canali dedicati. Tutto giusto, ma la magia del teatro dal vivo non è replicabile attraverso alcun surrogato, il teatro è sentimento, emozione, reciprocità col pubblico. Poi ci sono tanti altri politici, senza distinzioni di schieramenti, che dovrebbero occuparsi del nostro settore ma che mostrano di non avere alcuna conoscenza del nostro mondo. Per quanto riguarda i mezzi di comunicazione, dico che ci era dovuta una maggiore attenzione: apprezzo sempre chi si mette in gioco, come Castellitto quando in tv ha interpretato “Natale in casa Cupiello”, anche se secondo me non è stato un vero scatto in avanti avere il protagonista principale romano e mantenere il resto degli interpreti partenopei, dimenticando che Eduardo è un autore universale; per il resto mi aspettavo spazi maggiori, maggiore attenzione.

Anche a Sanremo, per esempio, a parte qualche appello, comunque utile, non c’è stata una vera “finestra” dedicata alla questione del teatro e delle tante sue maestranze. Mi aspettavo anche una maggiore esposizione da parte delle cosiddette star. Sarebbe bastato sottrarre un po’ di vetrina a questo o quel virologo… e dire che noi abbiamo il tipo di pubblico più vivo in assoluto; mi permetto di aggiungere che noi del Ghione abbiamo istituito negli anni un rapporto saldo, continuativo con i nostri spettatori: siamo rimasti sempre in contatto, abbiamo mantenuto caldo il feedback anche nei giorni più bui”.

Quali sono il tuo punto di vista e la tua esperienza sulla questione della sicurezza?

“Noi abbiamo 450 posti: a ottobre siamo ripartiti con 200 presenze, salvaguardando ogni tipo di distanziamento. Quando ripartiremo, nell’attesa degli ultimi aggiornamenti sulla data ufficiale, sarà col 25% degli spettatori. Rispetto massimo delle distanze e supporti divisori ecosostenibili: non in plexiglas, perché in caso di fuga ci si potrebbe tagliare. Rendo l’idea della nostra soglia di attenzione? Noi l’abbiamo sempre avuta…”.

Come ci si rialza dalle macerie? 

“Innanzitutto ricordandosi che se un paese non investe sulla cultura, in ogni sua forma, è un paese morto. Senza respiro, senza futuro. Poi, ricordandosi che l’attività del teatro genera anche un indotto economico: per esempio, nel rione Fornaci, il Ghione con i suoi spettacoli ha sempre aiutato il fatturato di bar e ristoranti. Infine, pensando e ripensando alcuni aspetti, alcuni cambiamenti da porre in essere, perché varie nostre modalità di vita sono cambiate. Io, per esempio, rifletto sugli orari, tanto per fare un esempio”.

Quello che abbiamo vissuto può anche costituire un’occasione, oltre che un grande problema?

“Sempre, un momento così, genera anche delle potenziali occasioni. Io l’ho anche vissuto a livello esistenziale, dopo aver avuto per ben due volte il tumore al seno. Detto questo, la rieducazione parta dalle scuole: investire sul teatro a livello laboratoriale, come conoscenza e percezione di sé per i ragazzi, rapporto con lo spazio – tempo, veicolo di fruizione storica e letteraria e potrei continuare. Vorrei il Ghione e tutti i teatri aperti dalla mattina alla sera per le scuole. Il futuro è lì”.

Un teatro sempre più dialogante con la società?

“Sì, in ogni suo aspetto e manifestazione. E attento a ogni esigenza, senza precludere a nessuno la via per la sua fruizione: il Ghione da tempo sposa progetti a favore dell’integrazione di ogni tipo di disabilità, allestendo anche spettacoli con LIS per i non udenti e rappresentazioni per i non vedenti. Oppure, la teatro – terapia per le donne che hanno vissuto l’esperienza del tumore. Ah! Siamo anche un teatro “cardioprotetto”: il Ghione è dotato di defibrillatore per ogni evenienza”.

Un teatro con tanto cuore, si può dire?

“In tutti i sensi: ce ne vorrà davvero tanto per ripartire”.

Paolo Marcacci