Piccola notazione di ordine sociologico. Coloro i quali invocano a piè sospinto il lockdown appellandosi al principio di solidarietà coincidono quasi perfettamente sempre con coloro i quali beneficiano in ogni caso di un introito garantito a fine mese, con o senza il lockdown.
Non è mia intenzione, si badi, creare l’ennesima contrapposizione orizzontale tra gli ultimi: tra dipendenti statali e partite Iva, tra gli sfruttati con salario regolare e gli sfruttati senza neppure stipendio fisso. Come più volte ho ricordato, si tratta di verticalizzare il conflitto riproponendo la vecchia formula servi contro signori.
Ad ogni modo, non si può non notare come, per coloro a cui facevo riferimento, la solidarietà corrisponda semplicemente al fatto che gli altri debbano essere pronti a rinunciare al proprio introito non garantito in ogni caso. Strana idea di solidarietà, in verità, quella per cui chiediamo all’altro di rinunciare a qualcosa, senza essere noi pronti a nostra volta a fare altrettanto. Dietro a una tale idea di solidarietà si nasconde, ancora una volta, il mefistofelico principio dell’egoismo fondativo della civiltà dei mercati: nei cui spazi la solidarietà si esaurisce nella pretesa unidirezionale dell’individuo.
Questo possiamo dirlo senza tema di smentita: la situazione del capitalismo pandemico che ormai da un anno si è imposto, è quella di un egoismo sfrenato.
“Homo homini virus“, ciascuno è un virus che deve immunizzarsi rispetto agli altri, ciascuno è un atomo che si deve distanziare.
La verità è che l’Occidente ha paura di morire e al tempo stesso non ha più voglia di vivere. La pandemia non ha fatto altro che rendere visibile questa esiziale tendenza.
Per paura della morte i più hanno già scelto di rinunciare alla vita, e quel che è peggio, chiamano “principio di solidarietà” l’esigenza ubiquitariamente imposta a far sì che tutti rinunzino egualmente alla vita.
E’ una situazione a tratti surreale, possiamo dirlo. Uno stato di emergenza che dura ormai da un anno e che si basa sempre più palesemente su una formula, basata a sua volta su un carattere volgarmente proditorio. La formula è quella che dice “chiudere ora per riaprire più avanti“. Ebbene, in questa formula vi è la mancanza di determinazione.
Una mancanza di determinazione che dà luogo a un “cattivo infinito”, direbbe Hegel, in cui il “più avanti”, come la carota per l’asino è di volta in volta rinviato a data da definirsi.
In ciò sta uno degli inganni dell’ordine terapeutico, eppure qualcuno dovrà in parte o totalmente rispondere di questa situazione. Verrà il giorno in cui qualcuno dovrà rendere conto.
Considerate a questo riguardo, dato che ormai si parla a un anno dall’inizio dell’emergenza epidemiologica, questo titolo che appare su “Il Sole 24 Ore” l’11 marzo 2020: “Coronavirus, chi ha sintomi ma esce di casa rischia l’accusa di omicidio doloso“.
L’ho detto e lo ridico: un giorno qualcuno dovrà rispondere di tutto quello che stiamo subendo.
RadioAttività, lampi del pensiero quotidiano – Con Diego Fusaro