Ci dicono già da tempo che, con l’emergenza epidemiologica, dobbiamo abituarci al passaggio epocale dalle cose alle “i-cose” a distanza (“i-things”, in inglese).
Klaus Schwab, guru del forum di Davos, lo ha apertamente teorizzato nel suo libretto, intitolato significativamente “The Great Reset”, pubblicato nel 2020.
Ebbene, stando a quanto spiegato da Schwab, avremmo Netflix in luogo del teatro, lo smart working in luogo del lavoro in ufficio, l’e-learning in luogo della didattica in presenza, e molte altre cose ancora che dall’epifania del coronavirus si sono demoralizzate e desacralizzate. Si sono, per così dire, traslate nella nuova dimensione del digitale da casa.
Come bene ha sottolineato Giorgio Agamben, filosofo che, come amo dire con Aristotele, mi pare un sobrio in mezzo a molti ubriachi, il distanziamento sociale che in chiave pandemico-sanitaria è il fulcro, fa sistema con la tecnologia digitale.
“Ne scaturisce”, dice Agamben, “una società non sociale, incardinata su atomi distanziati che cercano di immunizzarsi reciprocamente (homo homini virus) e che comunicano soltanto mediante i dispositivi della tecnologia digitale”.
Ebbene, provate un attimo a riflettere sull’essenza della nuova barbarie digitale del nuovo dispotismo tecnicizzato della distanza sociale. Se per il nuovo “animal virtuale” che dunque siamo, il lavoro diventa lavoro da casa, e se l’istruzione si fa istruzione da casa, non stupisce che anche la reclusione coatta dei sudditi si riconfiguri come reclusione coatta da casa. Lo chiamano “lockdown“.
Testualmente “lockdown”, ci suggerisce il dizionario, significa reclusione dove nemmeno è prevista l’ora d’aria che solitamente si accorda ai detenuti.
Allora non è poi arduo immaginare come nella società post-umana che si sta forgiando, e che trova nell’emergenza epidemiologica – giova ribadirlo – la propria imperdibile occasione di ristrutturazione, si verificherà una situazione tremenda di questo genere: chiunque, per una ragione o per un’altra, non risulti organico al blocco dominante della civiltà neoliberista, sarà di fatto tumulato in casa.
Sarà infatti condannato non solo al lockdown perpetuo, che è già da un anno il fondamento della nuova modalità di governo delle cose e delle persone, ma al silenziamento inappellabile mediante la chiusura dei profili dei colossi del web e le piattaforme dette “social network“.
In tal guisa, per riprendere la toccante formula di Antonio Gramsci, i non allineati verranno fatti sparire come sassi nell’oceano.
Non vi sarà nemmeno più bisogno, come accadeva nelle dittature del ‘900, di sopprimerli fisicamente. I dissenzienti verranno lasciati marcire agli arresti domiciliari del lockdown, nella loro dimora trasformata in asfissiante prigione senza nemmeno più la possibilità di comunicare con l’esterno mediante le piattaforme della tecnologia digitale che nel frattempo ai dissidenti sono state interdette.
I dissidenti diverranno dei “desaparecidos” digitali, e non è neppure fantascienza immaginare che in un futuro non troppo remoto, il potere istituirà come punizione per i dissidenti la disconnessione coatta dalla rete dell’internet. Il 2021 sta dando prova in modo niente affatto marginale di questa tendenza, che prevedo andrà a potenziarsi negli anni a venire, man mano che il regime terapeutico stringerà le sue maglie, si consoliderà e diventerà sempre più un paradigma di governo delle cose e delle persone, accettato e vissuto come naturale e fisiologico.
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