Università e lavoro: ecco perché in Italia si formano laureati ‘inutili’ per le imprese

Da recenti studi, è emerso che il nostro Paese è al terzo posto nella classifica mondiale con il più alto disallineamento tra le discipline di studio scelte dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro.

Far combaciare il proprio percorso di studi, portato a termine all’università o a scuola, con l’ambito lavorativo non è semplice, in particolar modo in Italia. A fornire ulteriori conferme, due recenti studi, il “New Skills at Work”, portato avanti da JpMorgan e Bocconi, dal quale si evince che il nostro Paese è al terzo posto nella classifica mondiale con il più alto disallineamento tra le discipline di studio scelte dai giovani e le esigenze del mercato del lavoro, e l’altro, realizzato da Anpal e Unioncamere, che ha rivelato come il 31% delle aziende riscontri ‘difficoltà di reperimento’ per 1,2 milioni di contratti programmati, nei primi tre mesi del 2019.

E le difficoltà non vengono attenuate dal fatto che in Italia vige la più bassa percentuale di laureati in Europa, anzi, questo dato rilevante non si traduce in un vantaggio per quegli studenti che riescono a portare a termine il proprio percorso di studi all’università. A dimostrarlo le ultime statistiche, che testimoniano come i tassi di disoccupazione dei nostri dottori, comparabili a quelli dei diplomati, sono molto più alti di quelli di Paesi dalla struttura economica simile al nostro: negli ultimi 15 anni, per esempio, la disoccupazione dei laureati tedeschi nella fascia d’età 25-39 ha oscillato tra il 2 e il 4%, quella degli italiani tra l’8 e il 13%.

Ma per quei (relativamente pochi) laureati nostrani allora, com’è possibile andare incontro alle esigenze lavorative delle imprese? E quanto pesa la scelta di un indirizzo scolastico o universitario, in previsione di un futuro lavorativo?

Stando alle spiegazioni di Massimo Anelli, economista della Bocconi, riportate su un servizio d’approfondimento de “Il Sole 24 Ore”, questa situazione è legata a un’informazione inadeguata sugli esiti lavorativi e retributivi delle diverse facoltà, che porta a una scelta basata sulle sole preferenze individuali. Utilizzando un database unico, sviluppato grazie al programma VisitInps scholars, Anelli ha seguito il percorso lavorativo di tutti i laureati di una grande città italiana fino a 25 anni dopo la laurea, calcolando il ritorno economico della scelta universitaria (depurato dalle capacità degli studenti e dalla loro condizione socio-economica). Dai risultati della ricerca, è emerso che le discipline che rendono tra il 70 e il 100% più di una laurea umanistica, e vanno maggiormente incontro alle esigenze del mercato del lavoro sono, in ordine, economia e management, giurisprudenza, medicina e ingegneria.

Fondamentale risulta, anche, la scelta delle scuole superiori. Dalla ricerca di Pamela Giustinelli e Nicola Pavoni (che approfondisce, tramite sondaggio su circa 900 studenti
di terza media e sui loro genitori, il processo di raccolta delle informazioni per la scelta della scuola superiore) emerge che le famiglie sono troppo focalizzate su aspetti di breve termine, come il gradimento dello studente, l’impegno necessario, la qualità percepita dell’istituto. Viceversa, risultano meno rilevanti nella scelta di un istituto scolastico superiore aspetti di lungo periodo, quali le prospettive in termini di mercato del lavoro o accesso all’università.

In generale, la conoscenza delle opzioni di scelta, da parte di studenti e dei genitori all’inizio dell’ultimo anno di scuole medie inferiori, è piuttosto limitata, e il processo di raccolta delle informazioni tende a concentrarsi su quelle che, inizialmente, erano le alternative preferite. Molte di esse, infatti, dipendono sia dalla situazione sociale ed economica delle famiglie, sia, in parte, dai risultati ottenuti dallo studente. Nello specifico, gli studenti in condizioni meno abbienti e disagiate sembrano prendere in considerazione pochissime opzioni per la scelta definitiva delle scuole superiori.

Ma come affrontare e tentare di risolvere, quindi, queste problematiche? Secondo gli esperti del settore, bisognerebbe occorre lavorare su entrambi i lati del mercato del lavoro. Da un lato, è necessario elevare la qualità della domanda di lavoro delle imprese, promuovendo investimenti che facciano crescere il livello tecnologico delle produzioni. Dall’altro, bisogna adeguare la formazione della forza lavoro in base alle competenze richieste dal mercato.

Altrettanto fondamentale è insistere sull’attrattività e sulla comprensione di programmi di vocational training, puntando sulla formazione professionale più efficace e su politiche attive del lavoro. Solo così sarà possibile sconfiggere il cosiddetto ‘skill mismatch’, ovvero il divario persistente tra il percorso formativo e l’offerta lavorativa.